Archivio Curio Mortari
sede principale: Loano (SV)
sedi distaccate: Savona, Milano
direttore Giorgio Galleani di Ventimiglia
contatti:
Pierre Jouvet
Galleria di scrittori. Curio Mortari
in “Corriere di Trieste”,
09 aprile 1952, p.3
Vi sono in Italia, come altrove, scrittori di notevole importanza che il pubblico medio conosce poco. Uno di questi è Curio Mortari, narratore e giornalista non più giovane, nativo di S. Benedetto Po, un vecchio e caro paese in provincia di Mantova.
Mortari non è uno di quegli scrittori che amano far chiasso (ahimè quanti ve ne sono), che fanno parlare delle loro opere e della loro persona; che litigano, polemizzano e si fanno amici anche del diavolo, per ambizione e fini pubblicitari. Mortari è uno scrittore silenzioso, modesto, che non si occupa di politica e di problemi sociali se, per forza maggiore, non ne è costretto dall'indagine politica, religiosa e psicologica relativa alle popolazioni descritte, e quando intende partire, per uno dei suoi lunghi viaggi, lo dice soltanto al direttore del giornale torinese di cui è redattore.
Ma Mortari non è il brillante «inviato speciale» come lo sono V. G. Rossi, Fraccaroli, Montanelli, Lilli, R. M. De Angelis, ecc., è un poeta, un osservatore raffinato e obiettivo, che percorre il mondo non per intervistare Lord C. o il principe S. o il grande musicista M., ma per «vedere» il mondo, per descriverlo, per analizzarlo nei suoi particolari umani e naturalistici. Ed è un narratore impareggiabile, inimitabile in questo genere. Alcuni suoi rari racconti di viaggi sono tra le cose più belle della narrativa italiana di questa prima metà di secolo.
E' un girovago solitario, un sognatore, come Mejde, come T. E. Lawrence, come Rohker. Umile, dall'apparenza comunissima, potrebbe essere scambiato per uno dei soliti commercianti che s'incontrano ovunque in tutti gli angoli della terra.
E' uno di quegli uomini, sempre più rari, che parlano poco e non hanno paura di niente, come i bambini scombinati che, finite le scuole elementari, a undici anni, iniziano a lavorare nelle officine o nelle botteghe dei fornai.
A loro piace osservare il sole, la luna, la neve. Si fermano stupiti davanti alle rovine antiche o davanti a un gruppo di marinai che giocano ai dadi, davanti ai macchinisti dal volto affumicato, e subito si sentono loro amici, loro compagni nella vita, per un po'. Per un po' si immedesimano in quegli uomini indovinando le loro aspirazioni, le loro illusioni, le loro fatiche, la loro realtà.
Poi continuano il cammino, mai stanchi.
Scrivendo di Mortari, mi viene in mente Lawrence, piccolo e magro come un ragazzino, taciturno, apparentemente timoroso di tutto, che non si fermava sotto il fuoco delle mitragliatrici turche, si spargeva succo di weip sulle ferite, dormiva nelle casematte infestate dai parassiti abbandonate dalla polizia di Sinai, o sulla sabbia umida; mangiava pane crudo, impastato con Samh e fango, nei cimiteri, seduto sulle tombe nelle cui connessure erano cementate orribili chiome di capelli.
Lawrence che, ammalato, febbricitante, con le braccia irrigidite dai morsi degli scorpioni, cavalcava per cento miglia consecutive sulle piste accidentate del Giann el Kumma, nel deserto accecante, senza lasciarsi sfuggire un'imprecazione o un lamento.
Lawrence che passava sui campi di battaglia cosparsi di cadaveri senza fermarsi e poi sostava ore e ore, commosso come un fanciullo, davanti alle rovine della città romane di Um el Semal, Um el Surab, Umtaiye. Lawrence, filosofo e poeta, profondo conoscitore dei classici greci e latini, che invece di starsene beato nella sua casa di Londra percorreva l'Oriente Semitico per apprendere i costumi di quelle popolazioni e la loro strana umanità; soffriva la fame e dormiva, libero e felice, rannicchiato sulla diga di De Lesseps, vicino al mare inquieto.
Era la vita che egli desiderava, senza mai fermarsi: dai confini meridionali della Siria al Deserto dei nomadi alla valle dell'Eufrate, dal mar Rosso al Mediterraneo, al Golfo Persico, da Suez a Jidda…
Sono uomini questi che non temono i pericoli e non si fermano mai perché per essi il mondo è senza confini. Ricordate quanta naturalezza vi è nel diario di Enrico Rohker: «Il mio breve viaggio, lontano»?
Breve viaggio! Da Esbjerg a Hinnoy… a Hargin, nella Manciuria; ai porti, alle bettole, alle valli, ai fiumi del Turchestan, del Tibet, del Nepal, della Birmania, del Siam, dell'India, del Pakistan… di Sumatra. Da Trinidad, nella Bolivia, alle coste di Prince Rupert, nel Canadà; a Mossamedes, nell'Angola; a Zanzibar, nel Tanganica; a Bauchi, nella Nigeria; a Takoradi, sulla Costa d'Oro.
Breve viaggio attraverso cento paesi e mille popoli diversi, mille linguaggi diversi. Nuove religioni, nuovi riti, nuovi costumi. Le leggi, l'onore, l'amore, l'odio, il sacrificio, la purezza, la morte, sempre intesi ed espressi diversamente dall'uomo, ove è nato e cresciuto. Nel suo mondo.
Divorato dalle malattie tropicali, Rohker si spense recentemente in Africa, lontano dal suo paese natio. Prima di morire disse: «Desidero essere sepolto qui perché considero anche questa la mia terra».
Strani uomini questi poeti viaggiatori. Prendono un biglietto all'aeroporto per una località lontana cinque, diecimila chilometri e partono con una piccola valigia e il giornale sotto il braccio , come il pensionato che da Firenze si reca a trovare la figlia a Bologna. Passano alti sui mai, sui laghi, sui deserti, sulle giungle e sui ghiacciai, poi scendono su terre lontane, mai viste prima d'allora, dove tutto è nuovo.
E vanno là per vedere ciò che è meno noto, ciò che è più inconsueto, più pericoloso, più straordinario.
In una pagina di questo suo recente e interessante volume «Islanda inferno spento», edito dalla Società Editrice Internazionale, Curio Mortari scrive: «Lasciate stare Hafna. E' frequentata da gente rissosa. Correreste il rischio di rimetterci la pelle!».
«Non importa - avevo risposto - Voglio vedere Hafna».
«Erano gli stessi propositi che avevo manifestato nelle zone più diverse del mondo (le così dette «zone pericolose») nonostante i consigli di altra gente cauta. A New York, avevo cercato i ritrovi dei gangsters e i dancings di Harlem ai tempi del proibizionismo; a Bagdad i quartieri arabi; nella jungla caspica di Mazanderan i leopardi e le tigri; nella Kasbak di Algeri i formicai indigeni, nelle pietraie del Riff marocchino o nei deserti del veld ai confini del Transvaal i pericoli delle guerre e dei deserti…».
E' un'avventura continua, una sete di «sapere» e di vedere personalmente ciò che la propria immaginazione cerca di scorgere attraverso la lettura dei libri di storia e di viaggi, delle enciclopedie illustrate, dei romanzi d'avventure.
La realtà è sempre diversa però: è piena di colori, piena di luci e di motivi che la nostra fantasia non poteva afferrare compiutamente.
L'Africa e l'India che Mortari e Rohker ci descrivono non sono quelle dei films, nè quelle dei romanzi di Boussenard e Salgari. Come la vera America, ci avverte Shalom Asch, non è a New York ma nelle terre dell'interno, nell'Oklahoma, nel Nebraska, nelle fattorie lontanissime, negli azzurri campi del Kentucky.
Ricordate Whitman?: «Partendo da Paumanok, m'alzo e volo come un uccello. E giro, e girando ascendo per cantare lassù, al Canadà, poi al Michigan, al Wisconsin, Iowa, Minnesota, a cantare i loro, nel Missuri, nel Kansas e Arkansas… Al Tennessee, Nel Kentucky, nella Carolina, nella Georgia, per cantare i loro. Nel Texas e poi su verso la California errando…».
Invece l'America che conosciamo noi è a New York, a Boston, a Filadelfia, a Hollywood. Città cosmopolite, confuse, assordanti, più o men uguali a Milano, a Londra, a Parigi.
Gli scrittori vagabondi come Mortari passano oltre oppure vanno in altri luoghi. Sbarcano a Port Etienne, nella Mauritania, o nei porti di Madagascar dove esistono ancora i ruderi dei forti costruiti dai pirati alla fine del secolo XVII. Visitano le pagode di Niring, i sotterranei di Sukkur, le terrazze del supplizio di Medir. Le fonderie, le miniere, i villaggi spersi sulle montagne o nelle foreste.
Tornano in patria, magari vanno a vedere le rappresentazioni di Macario e Rascel, ma poi partono ancora, attirati lontano dalla loro stessa ansia, dalla loro paura dell'immobilità.
La vita errabonda di Curio Mortari la troviamo in altri volumi bellissimi, editi sempre dalla SEI, «Il fiume d'oro nero» che narra un suo viaggio avventuroso attraverso la Turchia e le arse pianure della Mesopotamia, il deserto Arabico, la Siria e la Palestina fino al Mediterraneo, sul tracciato della pipe line, la strada del petrolio convogliato da Mossul ai porti di imbarco.
«Sud-Africa» è forse il suo volume più interessante. Eccolo agli Antipodi. Da Capo di Buona Speranza egli s'addentra nel veld misterioso e sterminato, nelle terre
«proibite» del Kimberley, ricche di giacimenti diamantiferi e delle miniere d'oro più ricche del mondo. Poi lo vediamo visitare le tribù ancora primitive dei Cafri e degli Zulù, nei paesi leggendari del Kraals, e descrivere i loro usi e i loro costumi pittoreschi.
Vi è, in queti suoi «diari», un soffio nostalgico di quelle terre lontane, con la loro musica, le loro praterie in fiore, la loro miseria sociale, la strana vita che palpita in esse e la piccola o la grande civiltà che ovunque gli uomini hanno saputo creare.
Pierre Jouvet